Trovare il consenso su un buon lavoro

(Sommario - Poiché mi dicono che il testo pare ambiguo ad alcuni, chiarisco subito: il solo modo di lavorare bene che conosco è nell’ambito delle leggi e dell'etica, secondo scienza e le sue evidenze, nell’ambito di raccomandazioni di associazioni, enti e dei loro esperti, dopo aver fatto scuole buone per durata, contenuti e docenti. Questa è la condizione ideale, seguono riflessioni di approfondimento.)

P.S.: American Optometric Association suddivide (al 2021) le proprie linee-guida come Evidence-based (con Clinical reports) e Consensus-based (più comuni). Ciò indica che si opera facendo alcune attività cose che hanno una base di evidenza e, invece, varie attività che si basano sul consenso tra esperti, in un sviluppo progressivo di valutazione razionale e scientifica verso il lavorare al meglio. (Invece agire senza evidenze e senza consenso con i colleghi, porta le azioni sotto la propria e personale responsabilità, non di categoria).

Clinical Practice Guidelines | AOA

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Come per il concetto “malattia”: tutti sappiamo cos’è e ne abbiamo avuto esperienza, ma definirla razionalmente, scientificamente, fenomenologicamente o almeno fattualmente, ecc. è difficile, forse impossibile. Per questo molte definizioni sono convenzioni: si conviene sia così, non si prova sia così, non è certo sia così. Non è un argomento secondario, perché da questo possono discendere problemi, incomprensioni e persino reati. 

Un buon lavoro è così: lo sappiamo riconoscere, ma è difficile da definire. E queste note nascono proprio da dialoghi con i colleghi.

Ciascuno rifletta su comuni attività professionali: applicazione di lenti a contatto, scelta di occhiali (monofocali o progressivi), scelta di visual training (VT, nelle sue declinazioni). 

Per ogni attività, ciascun professionista formato e/o abilitato (è il minimo per evitare il caso) può indicare alcuni aspetti essenziali, che non possono essere trascurati, se no il lavoro diventa un "cattivo lavoro". Per ogni centro professionale o gruppo di centri indipendenti ma anche ogni gruppo di una singola conduzione, ciascuno stabilisce procedure (o  policies) per chi lavora nel centro, al fine di offrire un servizio di qualità e costante ed evitare disservizi, rispettare leggi e (se queste mancano) consuetudini, stabilire regole nella relazione con colleghi e con professioni vicine e (ultimo ma non minore aspetto) circoscrivere la responsabilità del “capo” del centro, che si trova di fronte alla singola persona e quotidianamente. 

A monte delle scelte di singoli ci sono le scuole, nel senso proprio ossia dove si fa formazione completa, con le valutazioni e anche gli aggiornamenti per chi è già formato. Ma ci sono anche varie “scuole” individuali o di gruppi, ovvero il da-noi-si-fa-così, che resiste nel tempo e fatica a cambiare.

Sul percorso delle scelte di ciascun operatore, ci sono anche associazioni ed enti (esterni al professionista e al centro) che definiscono (generalmente) raccomandazioni di buona pratica o, più raramente, proprie linee guida (che sono più impositive) che indicano come si agisce (si dovrebbe o si deve). Le raccomandazioni hanno solitamente più/meno forza, hanno più/meno evidenze o studi o prove; non sempre omogenee, cioè ci può essere una raccomandazione forte con evidenze deboli, ad es. perché è necessario perfezionare le evidenze ma al tempo stesso gli esperti concordano sia necessario comunque agire.

Sullo sfondo e per tutti, leggi, giurisprudenza e consuetudini che non dovrebbero materia di scelta e diverse opinioni, ma purtroppo possono generare diverse interpretazioni.  

Dovrebbe essere chiaro a tutti che non c’è il modo perfetto di agire.

Non c’è nemmeno “il” modo scientifico: per definizione cambierebbe in continuazione, criticherebbe e cercherebbe di falsificare il proprio stesso agire e lo farebbe in modo sistematico. 

Non c’è nemmeno “il” modo basato sulle evidenze scientifiche, perché le evidenze si ottengono in condizioni controllate, complesse da trasportare nella pratica; infatti, ci sono riviste per traslare la scienza nella pratica (ad es. qui; si noti che la traslazione non include la clinical practice, riservata alle linee guida, cioè a un accordo tra operatori); Iona Heath argomenta molto meglio di quanto posso far io e chiarisce che le evidenze scientifiche sono “assolutamente essenziali ma sempre insufficienti” (vedi sotto, l’argomento di equilibrio).

Aggiornamento 2024: Già nel 2018 è apparsa una proposta di ridefinire la significatività dal consueto 0,05 (la probabilità del 5% che l’evento sia casuale; più raramente posta a 0,01; 1%) al valore di 0,005 (la probabilità del 0,5% che l’evento sia casuale) per definire che l’evento sia significativo. Questo implica che molti risultati considerati “significativi” diverrebbero solo “indicativi”, con tutta una cascata di conseguenze sull’approccio basato sulle evidenze.

Nello spirito delle indicazioni di K. Popper, possiamo sapere cosa è sbagliato anche con una prova (talvolta è facile, talaltra no), ma dobbiamo seguire un percorso complesso solo per cercare di superare i tentativi di falsificazione e avvicinarci alla verifica, sapendo che non si raggiungerà per definizione.

Non c’è nemmeno “il” modo etico, in quanto difficile da definire, bisognoso di chiari modelli di riferimento e anche libero da interessi impropri. Si veda qui: sempre la Heath mette in guardia contro la sovradiagnosi, della pervasività degli interessi, insomma dell'agire anche quando non ce n’è bisogno. Vale per chiunque si occupi di salute. (Già “il” modo deontologico legato alla categoria è difficile da mettere in azione; certo il codice deontologico è più definito dell’etica, ma richiede vigilanza continua di esperti capaci e irreprensibili, capacità di punire comportamenti scorretti; il Garante della Concorrenza ha evidenziato tempo addietro che gli ordini delle professioni storiche non riescono più ad esercitare queste funzioni.) 

Pertanto, ogni modo di agire reale e quotidiano è un equilibrio tra tutti i vari aspetti appena citati: faticoso, necessario, continuo, sotto la vigilanza di tutti. 

Equilibrio per garantire omogeneità e costanza (che consolida le pratiche, evita i disservizi e offre accessibilità) e un’evoluzione (che tende a risolvere e prevenire le difficoltà e limiti, ad es. con nuovi approcci), le scelte operative quotidiane di individuali e di gruppi - al meglio - sono conseguenza di buone scuole, tengono conto delle indicazioni di associazioni ed enti (terze parti che fanno sintesi delle evidenze scientifiche), si confrontano con varie interpretazioni delle leggi e cercano di limitare i da-noi-si-fa-così senza argomenti o con argomenti impresentabili.

Vedo utile affrontare l'argomento VT, per la sua complessità e fragilità, distinguendo alcuni modi di agire (ometto "rispettosi delle leggi" per ovvi motivi e "rispettosi del necessario approccio etico” perché difficile da formalizzare ma entrambi sono fondamentali)...

  1. modi di agire... usati dalla maggioranza dei professionisti, fondati scientificamente e concordati con terze parti esperte;
  2. usati/diffusi, ad es. per cercare di affrontare una condizione della persona ma con fondamento scientifico fragile;
  3. non usati né diffusi ma fondati e che sarebbero da recuperare almeno per condizioni speciali (così indicano gli esperti di terza parte, associazioni o enti); 
  4. usati da vari professionisti ma non fondati o con fondamenti molto fragili, da approfondire e studiare meglio per differenziare le consuetudini dai fatti;  
  5. usati da pochi professionisti e privi di fondamenti ma che appaiono interessanti a molti altri professionisti, cioè da approfondire e studiare meglio per coglierne eventuali fondamenti, prima di applicarli in modo diffuso; 
  6. usati da pochi e che invece appaiono inutili/dannosi a molti altri esperti, in fondo nella lista delle priorità (certo capita di trascurare buone idee minoritarie, ma possono anche essere solo sviste, ossessioni, errori individuali).   

Approssimativamente, il primo punto è quello dove la responsabilità (che rimane sempre personale) è condivisa con l’ambito professionale e quel modo di agire è considerato un buon lavoro

L’ultimo punto è invece una condizione dove il cattivo lavoro è molto probabile e di quel cattivo lavoro il singolo professionista è il solo responsabile (non la categoria, non l’ambito, non la scienza). 

In mezzo c’è lo spazio dell’evoluzione verso un buon lavoro.

Anto Rossetti, OD

PS: l’agire per un buon lavoro va oltre l’essere diligenti o tecnici razionali. Cercare un buon lavoro in un agire complesso implica una creatività (e responsabilità). Schön D.A. mette in evidenza questo aspetto nel suo “Il professionista riflessivo” (1983 ed. it. 2006) e indica i limiti del modello gerarchico di Razionalità tecnica, che rimane una risorsa funzionale ma non esaurisce né permette di affrontare varie condizioni dell’attività pratica, come chiunque ha capito dopo le prime esperienze e affronta un problema che non è risolvibile con la semplice applicazione di regole.

Questo agire implica fare una riflessione-in-azione e anche una riflessione sulla riflessione-in-azione.

Questo dovrebbe rendere chiaro che spesso non esiste un passaggio di mera esecuzione tra una prescrizione medica e la realizzazione di una correzione ottica. Chi "esegue” effettua scelte competenti (che altri non saprebbero fare, anche per definizione, non avendo quella specifica abilitazione), riflette su quel che fa e, al meglio, riflette sulla riflessione fatta.

Anto ritratto 2020 finestra


©Anto Rossetti